Lo chiamavano Jeeg Robot

Più informazioni su

    JEEG_IMAGE3E’ un po’ difficile recensire “Lo chiamavano Jeeg Robot”. Più che un film, uno strano ircocervo. Gabriele Mainetti fa un grande impasto di tutto e serve una specie di frullatone energetico allo spettatore, orfano dei robottoni anni  ’70 made in japan, che si ritrova, invece, invischiato in una specie di super hero movie alla amatriciana. Mainetti è tributario di tutto e di niente: la logica del supereroe a stelle e strisce è, tuttavia, largamente prevalente sullo schema giapponese alla Go Nagai visto in mille versioni, a partire da Mazinger Z. Comprenderete che per un otaku come me, legato a doppio filo proprio a quel genere di storia, veder scritta la parola “jeeg” di fronte a una pellicola che tenta, senza riuscire, di lanciare un genere superoistico all’italiana, potrebbe sollevare qualche nervo scoperto.

    Intanto, diciamole due parole su “Kotetsu Jeeg”, anime robotico fortemente ispirato ad elementi dell’archeologia nipponica che appartengono ad un’epoca, quella delle città stato influenzate dall’ingombrante vicino cinese, che in giappone portò la lavorazione del metallo, i cavalli e la scrittura in ideogrammi. In breve: l’antico regno Yamatai (realmente esistito, intorno al III secolo d.c.), appartenente al periodo Kofun (delle tombe a tumulo) effettivamente governato da una regina sciamano, Himiko (o forse da una dinastia di regine sacerdotesse), usava seppellire i servi insieme alla sovrana defunta, poi, in un secondo momento l’uso divenne “in effige” con le famose statuette Haniwa. Facile per Go Nagai utilizzare il regno Yamatai e la risorta regina sciamano per ideare l’antica civiltà della sigla italiana, decisa a riprendersi, risorgendo letteralmente dal terreno, il territorio dell’odierno Giappone.

    Ad opporglisi Jeeg l’uomo d’acciaio, nella persona di Hiroshi, figlio del Professor Shiba, illustre archeologo, nonché scopritore dei resti del regno Yamatai e del più prezioso dei suoi cimeli: la campana di bronzo che, miniaturizzata ed inserita nel petto del figlio, gli dona il potere di creare un potentissimo campo elettromagnetico cioè quello che tiene insieme i pezzi di Jeeg (i famosi componenti), intorno al quale la moderna tecnologia giapponese ha costruito una panoplia di armi e una base per resistere al previsto ritorno della vindice Himiko, dei suo sgherri Mimashi, Amasu e Hikima e di versioni giganti delle antiche statuette Haniwa. Lo-Chiamavano-Jeeg-Robot-banner

    Cosa c’entra tutto questo col film di Mainetti, direte voi? Niente. A parte il fatto che Jeeg e qualche sequenza dell’anime anni ’70 (con relativa citazione di Dynamic inc. la casa di produzione di Go Nagai) sono il deus ex machina di una specie di versione in dodicesimo di “romanzo criminale” in salsa supereroistica in cui il protagonista, molto marvellianamente tramutato in uomo d’acciaio da un bidone di fanghi tossici immerso nel biondo Tevere si scontra contro una versione de torbella del Joker. L’eroe è Claudio Santamaria divenuto super forte e super resistente col bagnetto a fiume (ma non super veloce, dato che Santamaria sfoggia dei quarti molto romaneschi, ma poco kriptoniani), il super nemico è  Marinelli, bravissimo a fare il matto ed anche lui destinato a farsi i fanghi a fiume dopo essere stato mezzo abbrustolito vivo da una banda di strampalati camorristi, risorgendo in versione super cattivo.

    Più che dalle parti di Mazinga Z o da quelle di Superman, siamo piuttosto fra “Basette” e i lavori dei Manetti Bros, specialmente “L’arrivo di Wang”: storia fin troppo lineare e scontata (presa di peso da un mix Superman-Batman con qualche richiamo al supereroe trash “The toxic avenger”) che utilizza le clip di Jeeg per attirare pubblico, ma poco di nuovo da vedere.

    Bravina Ilenia Pastorelli che tenta di dare una chiave di lettura meno schematica a una storia abbastanza sgangherata, affrontando all’esordio un ruolo molto difficile, quello della ragazza vittima delle attenzioni moleste di un padre orco e che si rifugia nei cartoni animati e nella malattia mentale per sfuggire alla sofferenza, la stessa che riuscirà a tirare fuori Santamaria dal suo isolamento umano, trasformandolo  in eroe.

    Insomma “Lo chiamavano Jeeg Robot” si può anche andare a vedere. Scordatevi Nagai e Jeeg però e tenete in mente “Basette” (decisamente più riuscito nell’improbabile tentativo di crasi nippo-romanesca).

    Cosimo Benini

    Più informazioni su