Sopravvivere ai tempi del terrore

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    polizeiSopravvivere all’epoca del terrorismo globale (psicologicamente) non è impresa facile.
    Le cronache francesi e tedesche di questi ultimi giorni raccontano dell’impotenza europea proiettata sul suolo nazionale. Per anni si è parlato di una Europa gigante economico e nano politico, soggetta alle scelte di politica estera americana e in ordine sparso quanto alla propria, al punto che l’istituzione di “Mister PESC”, l’alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, è sembrata soltanto una toppa troppo piccola per un buco troppo grande.
    Dopo vent’anni di scelte suicide degli Americani in Medio Oriente e due guerre inutili, Iraq e Afghanistan, dalle quali Obama si è ritirato, completando il disastro iniziato dai Bush, il vaso di pandora del grande medio oriente arabo e musulmano è ormai scoperchiato e tutta l’Europa può dirsi “israelizzata”, nel senso che dobbiamo avere paura a salire su un autobus o su un convoglio della metro, recarci allo stadio, andare ad un concerto o a far compere in un centro commerciale, fenomeno ben noto agli israeliani.
    Non starò a ripetere per l’ennesima volta la storia del crollo dell’Impero Ottomano, della fine del colonialismo europeo o della spartizione del medio oriente con l’accordo Sykes-Picot e l’avventuroso incontro fra il petrolio e la retriva dinastia sunnita degli Al Saud, né delle mille dittature militari e baathiste che hanno, via via, preso il posto dei re e dei regimi instaurati dalla exit strategy anglo francese alla fine del primo conflitto mondiale.
    Vorrei invece attirare l’attenzione dei miei due lettori sul legame che rimane fra emigranti e paese d’origine e di come i tumulti che quelle terre relativamente lontane si trovano a vivere riescano, in qualche modo più o meno carsico, a farsi strada fin nelle nostre città con le conseguenze che abbiamo davanti agli occhi. E vorrei evidenziare come, anche quando quel legame sembra reciso (il caso di figli o nipoti di immigrati), esso riemerga, all’improvviso e con atavica potenza risucchi nel proprio maelstrom di piombo e sangue quelle schegge rifiutate da una società occidentale sempre più atomizzata ed in crisi per la quale, superando una visione nichilista e materialista ed abbracciando un islamismo confezionato su misura per gli scopi di chi manovra i fili del terrore, non provano che odio e desiderio di distruzione.
    Tutta la civiltà europea dovrebbe seriamente riflettere sugli errori commessi negli ultimi trent’anni, sul lascito del crollo del blocco orientale, sulle conseguenze della fine del realsocialismo sovietico e sul fatto che un mondo unipolare a trazione americana si è rivelato un mondo molto più fluido e frammentato –quindi insicuro- di quello congelato dalla contrapposizione fra i blocchi e dal rischio di olocausto nucleare.
    Accogliere poi (con una spintarella da parte di Washington) i paesi dell’Est in Europa in un numero così rilevante ha interiorizzato le paure russofobe di chi aveva sperimentato il tallone di Mosca, ha reso quindi ancor più remota la possibilità di un’agenda unica di politica estera europea, favorendo fughe in avanti e geometrie variabili delle cancellerie nazionali.
    Prendiamo la Merkel, ad esempio, che ha sbagliato tutto quel che c’era da sbagliare in materia e oggi paga dazio, dopo aver rischiato la disgregazione dell’Ucraina ed una guerra per procura che non poteva combattere, finendo così per favorire la Russia di Putin. Poi dopo anni di indifferenza al tema dell’emigrazione, fin quando esso restava un problema di noi meridionali, appena si sono aperte le vie orientali (Turchia, Grecia e Macedonia) all’immigrazione dei profughi di guerra ha imbarcato centinaia di migliaia di sventurati, mentre si stringeva in un abbraccio molto scomodo con quell’Erdogan che ora si avvia a diventare un caudillo vecchio stile dopo il vero-finto tentativo di pustch militare.
    Frau Kanzlerin, infine, ha giocato la più doppia delle partite: fare il beau geste, salvo poi risbolognare la patata immigrazione a Renzi, una volta comprato il chiavistello turco a suon di miliardi comunitari con generoso contributo italiano (e l’esempio, come ai tempi belli della birreria di Monaco, glielo abbiamo dato noi che coprivamo il compianto Gheddafi di denari per tenersi i profughi nel deserto della Libia).
    Come spararsi sui piedi, insomma, sembra il motto dell’Europa (dis)unita. E’ come la corsa a tre gambe che si fa in due (qui siamo 28 meno gli inglesi in vena di paraculate dopo il micidiale referendum con il quale Cameron si è autodistrutto): quando non ci si coordina, si cade e si ruzzola per terra.
    Ecco, questa oggi è l’Europa, l’Europa della decrescita, della denatalità, l’Europa del melting pot con scarto di bombe, ammazzamenti e matti e sparatori vari, tutti ascritti d’ufficio ai ranghi del Califfo di Raqqa il quale, da arabo scaltro qual è, utilizza la carne da cannone in Europa e l’immancabile quota di utili idioti per farsi la più sanguinaria delle propagande, ben ammaestrato, in questo, dai suoi quadri militari che arrivano, chi più chi meno, da quelli storicamente esperti di massacri ed attacchi sulla popolazione civile delle disciolte forze armate dell’ex regime sunnita degli Hussein.
    Un’ultima annotazione di vita quotidiana, la mia, ma anche quella di molti di voi: tutte le mattine per andare a lavorare prendo la metro e incontro i valorosi militi armati di Beretta AR 70/90 (qualcuno anche con il nuovo ARX).
    Prima erano due, ora sono quattro e hanno le ottiche montate sui fucili d’assalto. Mi domando: se ci sarà da sparare al matto di turno con i civili in mezzo cosa faranno? E noialtri che si va al lavoro, cosa faremo, a parte gettarci a terra e pregare di non prenderci una bella dose di piombo?

    (Cosimo Benini)

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