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Seid: razzismo? No, sindrome da abbandono

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    Seid: razzismo? No, sindrome da abbandono –

    Il passato lo ossessionava, acuito dall’isolamento del lockdown. Questa la chiave del suicidio di Seid, secondo la mamma. Vero. Chi ha esperienza di adozioni queste cose le sa. Chi alla nascita viene abbandonato in orfanotrofio, vive tutta la vita sentendo dentro di sé il trauma dell’abbandono. Chi più, chi meno, tutti.

    Seid è stato adottato quando aveva sette anni. Ha lasciato l’orfanotrofio, i suoi amici compagni di sventura, per finire a mille chilometri di distanza in uno strano paese dove la gente è bianca. Per lui, un altro abbandono, anche se temperato dall’essere accolto in una famiglia che lo ha amato, coccolato, cresciuto nella serenità, nel benessere.

    A 14 anni, è partito per l’avventura del calcio, è finito al Milan, vivendo bene coi suoi nuovi amici, ma la nostalgia della sua nuova famiglia lo ha spinto a rinunciare a una carriera da calciatore che si annunciava eccellente per tornare a casa. Un altro abbandono.

    Poi, di nuovo a Milano a studiare giurisprudenza, lontano da casa. E lì il lockdown, il maledetto lockdown, fa il resto. Seid, isolato dall’università, isolato dai compagni, si auto-isola ancora di più nella sua stanzetta dello studentato e rimugina il passato, coi suoi fantasmi, fino a non sopportare più il nuovo, ennesimo abbandono.

    Sì, si chiama sindrome da abbandono il demonio di Seid, il demonio che se lo è portato via, come tempo fa si è portato via un altro ragazzo adottato, quel ragazzo che si lanciò dal balcone costringendo la ragazza, che voleva lasciarlo, a volare giù nell’asfalto insieme a lui.

    Chi è stato abbandonato alla nascita, non deve più essere lasciato solo, non lo sopporta.

    Arrigo d’Armiento

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