Storia di Carlo Levi, l’intellettuale che denunciò la miseria dei contadini lucani

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    Carlo Levi, uno dei più grandi narratori del Novecento fu, oltre che uno scrittore e un giornalista, un medico, un pittore affermato e, negli anni della maturità, perfino senatore. Ma soprattutto, fu un uomo che dedicò la sua vita all’impegno sociale e che combattè con coraggio per le sue idee di libertà e giustizia, conoscendo più volte il carcere durante il regime fascista. L’opera alla quale è legata maggiormente la sua fama, Cristo si è fermato ad Eboli, è quella che più di tutte rispecchia la sua dedizione verso la difesa dei più deboli. Essa gli fu ispirata dal confino che trascorse nel paese lucano di Aliano, e rappresenta una denuncia accorata delle condizioni di miseria, sofferenza e oppressione in cui viveva la popolazione contadina del posto, affrontando così la tematica della questione meridionale secondo una nuova prospettiva di giustizia sociale.

    Carlo Levi nacque il 29 novembre 1902 a Torino. I suoi genitori, Ercole Raffaele Levi e Annetta Treves, erano di origine ebraica ed appartenevano alla borghesia torinese. Prima di Carlo, la coppia aveva avuto un’altra figlia, Luisa, che in seguito divenne neuropsichiatra infantile. Lo zio di Carlo, I’onorevole Claudio Treves, era invece noto per essere una figura di rilievo nel Partito socialista. Levi iniziò a dipingere già all’età di tredici anni; di poco successiva fu la sua passione per la scrittura. Studiò al liceo Alfieri di Torino, frequentato in quegli stessi anni da Leone Ginzburg, Massimo Mila, Giulio Einaudi, Giaime Pintor e Cesare Pavese. Dopo aver conseguito il diploma, si iscrisse alla Facoltà di Medicina presso l’Università di Torino. In questo periodo conobbe Piero Gobetti, ed iniziò a collaborare con lui alla rivista La Rivoluzione liberale.

    A soli ventidue anni Levi si laureò in Medicina. Nello stesso anno, partecipò ai primi gruppi di resistenza contro il fascismo ed espose i suoi quadri alla Biennale di Venezia. Fu uno dei “sei pittori di Torino” (Jessie Boswell, Gigi Chessa, Nicola Galante, Carlo Levi, Francesco Menzio ed Enrico Paulucci), gruppo che aveva come referente artistico Felice Casorati. Tra le altre opere, dipinse il Ritratto del Padre e il levigato nudo di Arcadia. Nello stesso periodo, Levi diventò assistente del professor Micheli presso la Clinica Medica dell’Università di Torino, conducendo lavori sperimentali sulle epatopatie e sulle malattie delle vie biliari.

    Nel 1931 si unì al movimento antifascista di “Giustizia e libertà”, fondato tre anni prima da Carlo Rosselli. Il suo impegno politico gli costò vari arresti, il primo dei quali avvenne nel marzo 1934, quando trascorse due mesi in prigione per sospetta attività antifascista. Sì mossero in suo favore alcuni artisti residenti a Parigi (Signac, Derain, Léger, Chagall ecc. ), che firmarono un appello per la sua liberazione. Quando fu rilasciato, Levi subì un provvedimento di ammonizione della durata di due anni, e l’invito ad esporre alla Biennale di Venezia che doveva tenersi quello stesso anno gli fu revocato.

    Nel maggio del 1935, poco prima della guerra contro l’Etiopia, ci furono numerosi arresti tra i membri di “Giustizia e libertà”. Carlo Levi fu fermato come fiancheggiatore insieme a Franco Antonicelli e Cesare Pavese. Il 15 luglio la Commissione provinciale per il confino di Roma condannò Levi al confino di polizia per tre anni “Siccome pericoloso per l’ordine nazionale per aver svolto…attività politica tale da recare nocumento agli interessi nazionali”. Fu così inviato inizialmente nel piccolo centro lucano di Grassano e in seguito, per evitare che fuggisse, fu ridestinato ad Aliano, un piccolo paese in provincia di Matera, a quel tempo quasi inaccessibile per mancanza di vie di comunicazione. Il confino nel paese lucano pose Levi in contatto con la realtà meridionale, a lui del tutto sconosciuta, e lo portò a sperimentare “la miseria profonda di una parte oscura e dolente dell’Italia rimasta sepolta per millenni sotto il peso dell’ingiustizia e dell’indifferenza politica”.

    Da questa esperienza, che lo colpì profondamente, nacque il suo capolavoro, il già citato “Cristo si è fermato a Eboli”. Tale opera, con il tempo, è divenuta emblematica di una situazione storico-sociale della Basilicata e, più in generale, di alcune zone dell’Italia meridionale. Il libro ottenne un successo straordinario, venendo tradotto in moltissime lingue, tra le quali il cinese, il francese, l’inglese, l’islandese, il greco, il giapponese e lo spagnolo. Dal libro fu, in seguito, tratto un omonimo film di Francesco Rosi (1979), nel quale il personaggio di Levi è magistralmente interpretato da Gian Maria Volontè. Nel maggio del 1936, in occasione della proclamazione dell’Impero, fu disposta la liberazione di Levi dal confino.

    Nel novembre del 1936 la Galleria del Milione di Milano organizzò una sua mostra personale, dove espose opere realizzate in Lucania durante il confino. Tuttavia, a causa dello strapotere del regime fascista lo scrittore ben presto dovette lasciare l’Italia e si rifugiò in Francia, dove continuò a dedicarsi alla sua attività politica. Nel 1937 fu a New York e dal 1939 al 1941 soggiornò di nuovo a Parigi. Nel 1943 rientrò in Italia, dove si unì al Partito d’azione, venendo ben presto nuovamente arrestato. Dopo l’8 settembre partecipò alla resistenza come membro del Comitato di Liberazione della Toscana. Fu direttore del quotidiano toscano “La Nazione del Popolo” e, nel 1945, a Roma de “L’Italia libera”. Come giornalista, partecipò a vari progetti ed inchieste in ambito politico-sociale. In seguito, lavorò per molti anni con il quotidiano La Stampa di Torino. Nel 1946 Levi pubblicò “Paura della libertà”, opera in cui indaga sulla crisi della cultura europea e si interroga sulle ragioni che hanno condotto l’umanità sull’orlo del precipizio.

    Nel dopoguerra, Levi conobbe anche il grande amore: Linuccia Saba, figlia dello scrittore Umberto. Tale incontro diede vita ad una lunghissimo legame sentimentale. Professionalmente, gli anni cinquanta furono per lui forieri di un’intensa e proficua attività letteraria, che portò alla pubblicazione di opere significative come “L’orologio”, opera che costituisce un’appassionata testimonianza della caduta del governo Parri nel ’45; seguirono libri di viaggio come “Le parole sono pietre” (1955), sulla Sicilia, “Il futuro ha un cuore antico” (1956), sulla Russia sovietica, “La doppia notte dei tigli” (1959), sulla Germania, e “Tutto il miele è finito” (1964), sulla Sardegna. Nel frattempo, Levi proseguì l’attività artistica, unendosi al movimento neorealista ed esponendo i suoi quadri nel Biennale di Venezia.

    Nel 1963 avvenne una vera e propria svolta nella sua carriera: lo scrittore fu eletto senatore della Repubblica nelle fila della sinistra indipendente, ruolo che mantenne fino al 1972. Negli anni successivi venne operato due volte a causa di un distacco della retina. Nonostante la difficoltà alla vista, mentre era ricoverato in clinica per uno degli interventi agli occhi scrisse Quaderno a cancelli, opera autobiografica in cui la consapevolezza della fine vicina porta l’autore a ripercorrere ricordi di infanzia che si intrecciano con i sogni.

    Carlo Levi morì il 4 gennaio 1975 a Roma. Per sua volontà fu sepolto ad Aliano, per mantenere la promessa di tornare fatta agli abitanti quando lasciò il paese. Le sue opere, che danno vita a un’immagine estremamente vivida dell’Italia del dopoguerra, sono ora raccolte negli otto volumi di Opere in prosa curate dalla fondazione Carlo Levi per la casa editrice Donzelli.

    Federica Foca’

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