Alda Merini, la poetessa che ha sconfitto il manicomio

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    La celeberrima poetessa Alda Merini nacque a Milano il primo giorno di primavera del 1933 e morì, sempre a Milano, il primo novembre 2009: proprio oggi, dunque, ella avrebbe compiuto 85 anni. L’aspetto più conosciuto della sua tormentata vita è sicuramente il ricovero decennale in manicomio. Ella, infatti, fu ricoverata in ospedale psichiatrico per ben tre volte: la prima all’età di sedici anni, la seconda dal 1964 al 1972 nell’istituto Paolo Pini di Milano, e la terza a Taranto nel 1986. In effetti, se si vuole comprendere appieno la statura morale e la forza di quella che fu, oltre che una grande artista, una straordinaria donna, non si può prescindere dalla comprensione del contesto in cui avvenne la sua esperienza di internamento in manicomio.

    Ecco perché un breve excursus sulla situazione degli ospedali psichiatrici al tempo in cui vi fu reclusa la poetessa può far comprendere meglio quale miracolo ella abbia compiuto nel trasformare il dolore dell’internamento in una fonte di ispirazione per la sua sublime produzione letteraria, che raggiunse il suo apice con l’opera “La terra santa”, testo che le valse il Premio Librex Montale nel 1993 e che narra proprio della sua sconvolgente permanenza in ospedale psichiatrico.

    In Italia, la prima legge ad occuparsi dei malati mentali fu la n. 36 del 1904, emanata sotto il Governo Giolitti. Tale provvedimento normativo definiva “manicomi” gli istituti destinati ad ospitare i pazienti colti da “alienazione mentale”. In tali strutture dovevano essere obbligatoriamente ricoverate le persone che presentassero la «manifesta tendenza a commettere violenza contro se stessi o contro altri». Già da queste parole risulta chiara la considerazione sociale del malato di mente come di un soggetto pericoloso, nei confronti del quale è necessario prendere delle contromisure volte al controllo più che alla cura.

    Il ricovero in manicomio poteva essere richiesto dal diretto interessato, dalla famiglia o da chiunque altro vi fosse interessato, oppure poteva essere ordinato provvisoriamente dalla Autorità locale di Pubblica Sicurezza. In quest’ultimo caso, dopo un mese dall’internamento, se il direttore del manicomio indicava come necessario il ricovero veniva chiesta al Tribunale l’autorizzazione definitiva. Teoricamente l’Autorità Giudiziaria aveva il compito di verificare, nell’ambito di un vero e proprio processo, se il ricovero non costituisse un abuso, ma nella realtà la magistratura dell’epoca rinunciò ad assolvere a questa funzione di controllo, considerandola come un inutile adempimento burocratico.

    La situazione dell’”alienato”, dunque, era a dir poco drammatica, e non solo perché chiunque poteva essere internato in assenza di una reale verifica sulla necessità del ricovero. Infatti, lo stesso stretto coinvolgimento dell’Autorità Giudiziaria nella procedura volta all’internamento in manicomio dei cosiddetti “malati di mente” è testimonianza del fatto che chi veniva dichiarato “alienato” era sostanzialmente equiparato a un delinquente comune, tanto che nel 1930 venne addirittura previsto l’obbligo di registrare i ricoverati negli ospedali psichiatrici nel casellario giudiziale.

    Inoltre, anche se in teoria le dimissioni dal manicomio erano previste ad avvenuta guarigione del paziente, all’interno dei manicomi non solo mancavano totalmente strumenti di terapia risolutivi, ma proprio a causa dell’associazione tra malattia mentale e pericolosità venivano adottate, ai danni dell’alienato, delle procedure degradanti, che sfociavano in vere e proprie torture. Tra queste si segnalano, al momento dell’ammissione, il ritiro degli effetti personali, l’assegnazione di un numero e l’obbligo di portare un’uniforme; in seguito, ogni atto valutato come “eversivo” era suscettibile di essere punito con vere e proprie torture.

    Questi trattamenti avevano l’effetto di annullare, fino ad azzerare, l’identità di una persona. Per di più, si consideri che molte donne ricoverate in manicomio erano perfettamente sane di mente. Infatti, durante la prima guerra mondiale finivano in manicomio soprattutto le donne che manifestano gravi sintomi depressivi strettamente correlati agli eventi bellici, e che per questo venivano inquadrate in quella categoria psichicamente tarata, incapace di sopportare l’urto degli eventi, nei confronti della quale era considerato un bene adottare delle misure di risanamento. In epoca fascista la situazione era destinata a peggiorare, in quanto si accentuò la dimensione di controllo dei manicomi: è in questa fase storica che in manicomio finiva quella che veniva definita la «malacarne», composta da quelle donne che si discostavano dall’ideale fascista della sposa e madre esemplare e che con le loro condotte intemperanti rischiavano di intaccare il patrimonio biologico e morale dello Stato.

    Nel secondo dopoguerra la situazione non migliorò: in manicomio finivano donne sane, ma che avevano manifestato un temperamento ribelle, in quanto magari si erano rese protagoniste di litigi in famiglia o con vicini di casa, oppure si erano mostrate recalcitranti rispetto alla disciplina familiare o, peggio, si erano abbandonate a disdicevoli avventure amorose con uno o più giovanotti. Fu solo nel 1968, con la legge Mariotti, che vide la luce il primo provvedimento normativo che rese meno inaccettabili le condizioni dei ricoverati in ospedale psichiatrico. Infine, la cosiddetta “Legge Basaglia” del 1978 abolì i manicomi, eliminò il concetto di pericolosità per sé e per gli altri del malato di mente e collocò l’assistenza psichiatrica nel contesto dei normali servizi ospedalieri e ambulatoriali.

    Nella sua eccellente produzione letteraria Alda Merini racconta di quando l’indicibile tormento dell’ospedale psichiatrico toccò a lei. La poetessa sperimentò, sulla propria pelle, orribili torture: fu legata mani e piedi al letto come punizione per la propria insonnia, subì elettroshock senza anestesia per aver risposto male a un’infermiera, visse l’umiliazione, lei che era tanto pudica, di doversi spogliare davanti a tutti per essere lavata con l’acqua fredda. Questo trattamento, degno di un lager, ella lo affrontò con coraggio e soprattutto senza mai rinunciare alla speranza di essere felice, tanto che nel manicomio trovò anche l’amore: un paziente chiamato Pierre, che però in seguito fu stato trasferito in un altro istituto proprio a causa della sua passione per la poetessa.

    All’uscita dal manicomio, Alda Merini seppe trasformare l’orrore in poesia, dando voce al dolore di tanti uomini e donne la cui sofferenza non verrà dimenticata grazie ai suoi stupendi versi. Questo è il merito di un’artista che ha sperimentato tutto della vita: il dolore, la miseria e la perdita, ma anche l’amore e infine il riconoscimento per una produzione letteraria indimenticabile.

    Federica Focà

    Alda Merini

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