La soglia di Gorizia e la Fanteria d’Arresto – un capitolo misconosciuto della storia militare italiana.

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    All’indomani del secondo dopoguerra, la spartizione del mondo fra i blocchi mise in una posizione del tutto particolare paesi come l’Italia, definiti “paesi cerniera” cioè al confine fra Ovest e Est comunista. In particolare, in Italia la piana di Gorizia costituiva un punto di transito per una ipotetica invasione di reparti corazzati sovietici via Jugoslavia. La forte componente meccanizzata dell’armata rossa che giunse a sopravanzare grandemente la corrispondente componente delle forze NATO in un rapporto di 4 a 1 condizionò l’intera pianificazione strategica del blocco occidentale. Anche le caratteristiche dei mezzi in dotazione alle forze armate del Patto di Varsavia (T64, T72 e T80 sovietici, lenti e pesanti, ma ben corazzati e con cannoni potenti che costituivano i reparti d’assalto), facevano del dispositivo alleato un dispositivo militare di tipo prettamente difensivo. Già due anni dopo la firma del trattato Nato, l’Esercito aveva istituito dei Battaglioni da Posizione con il compito di presidiare opere di difesa permanenti al confine con l’Austria e con la Jugoslavia. Nel 1962 questi Battaglioni vennero trasformati in Fanteria d’Arresto con il compito di bloccare o comunque ritardare l’avanzata nemica, permettendo all’Esercito italiano di organizzarsi per la successiva difesa. A tale compito erano preposte le opere difensive e di fortificazione i cui resti sono ancora visibili nella piana di Gorizia. Dette “opere” erano composte, principalmente, da cannoni anticarro, mitragliatrici e posti di osservazione. In alcuni casi erano state riutilizzate torrette di vecchi carri americani M48 o, addirittura, vi erano stati interrati e cementati carri interi, per motivi di costo e di celerità. La dislocazione delle fortificazioni comprendeva il Friuli Venezia Giulia e si estendeva dal confine con la ex Jugoslavia sino al fiume Tagliamento, da est verso ovest e dal Passo di Tanamea alla zona compresa fra la foce del Timavo e quella dell’Isonzo, da nord a sud. La maggior parte delle fortificazioni era costruita attorno o in prossimità degli assi stradali più importanti e di importanti ponti stradali o ferroviari. In genere, una fortificazione si componeva di un posto comando, da dove il Comandante dell’opera dirigeva il tiro delle armi, di un posto di osservazione che preavvertiva dell’avvicinamento dell’avversario e di varie postazioni fisse di armi: cannoni anticarro, mitragliatrici pesanti e antiaeree, mitragliatrici leggere per la difesa ravvicinata, postazioni per mortai e bazooka. Al massimo della dotazione, l’intera regione Friuli appariva fortemente militarizzata (celebre il caso di Palmanova, città fortezza quasi interamente abitata da militari) con una dotazione di 25 brigate nel 1975. Fra le voci di corridoio, mai confermate e comunque relative a materia coperta da segreto militare, ce n’é una relativa al fatto che la “soglia” di Gorizia, ossia il punto focale della difesa a nord della Penisola da un’eventuale invasione delle truppe provenienti dal blocco sovietico dell’Est, sarebbe stata dotata di un certo numero di opere a pozzo per l’installazione di mine atomiche atte ad arrestare o rallentare l’avanzata del Patto di Varsavia. Dal 1990 in poi, dopo il crollo del Muro di Berlino, il Friuli ha subito una veloce e consistente smilitarizzazione che ha ridotto di molto la presenza dell’Esercito sul territorio, ma lo ha lasciato disseminato di strutture di difesa e caserme abbandonate e fatiscenti. Da parecchi anni la regione autonoma Friuli Venezia Giulia chiede al Governo di entrare a far parte di tali strutture, per poi rigirarle ai comuni, che le trasformerebbero in sedi per associazioni, costruirebbero alloggi ad edilizia agevolata o le venderebbero ai privati, ma l’iter per la dismissione sembra arenarsi continuamente per motivi burocratici.

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