Sarebbero gli auto-anticorpi a contribuire allo sviluppo della forma grave di Covid-19

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    A scoprirlo ricercatori che fanno parte di un consorzio internazionale, COVID Human Genetic Effort (CovidHGE), che coinvolge più di 50 centri di sequenziamento e centinaia di ospedali in tutto il mondo, tra cui l’IRCCS Ospedale San Raffaele.

    La ricerca viene pubblicata, in due articoli distinti, su Science. Uno riguardante gli auto-anticorpi che impediscono il corretto funzionamento dell’interferone di tipo I e che vede la collaborazione dei medici e ricercatori del San Raffaele; l’altro, il secondo lavoro, completa il primo rivelando che una piccola percentuale di pazienti con forme gravi di covid-19 sono portatori di mutazioni genetiche che impediscono la produzione o l’uso corretto dell’interferone I.

    Entrambi gli studi mettono in luce quale è il problema di fondo: una ridotta funzionalità dell’interferone I, ingrediente chiave della risposta immunitaria ai virus, che nel primo gruppo di pazienti viene neutralizzato dagli auto-anticorpi; mentre nel secondo viene prodotto in quantità ridotte a causa della mutazione genetica. Gli studi evidenziano che più del 10% dei pazienti sani, che sviluppano una forma grave di Covid-19, posseggono degli anticorpi disfunzionali che attaccano il sistema immunitario invece del virus, rendendolo meno efficace nella lotta all’infezione.

    Mentre il 3,5% è portatore di una mutazione genetica predisponente. Secondo Jean Laurent Casanova, capo del laboratorio di Genetica umana delle malattie infettive presso la Rockefeller University di New York e coordinatore di entrambi gli studi, si tratta di disfunzioni che, almeno in teoria,  possono essere trattate con farmaci e approcci già esistenti.

    Gli scienziati sperano che l’approccio adottato dal consorzio permetterà di capire a fondo i meccanismi molecolari e genetici che causano le forme più gravi di Covid-19 e di dare risposte ai molti interrogativi che la variabilità con la quale si manifesta l’infezione suscita, come: perché il virus può causare una malattia con sintomi lievi, in grado di risolversi autonomamente, o uccidere in pochi giorni? Perché gli uomini sono più colpiti delle donne dalle forme gravi della malattia? Quali sono i meccanismi dietro il rapido aumento della mortalità al crescere dell’età anagrafica?

    Analizzando i tessuti biologici di 987 pazienti con forme gravi di Covid-19, gli scienziati del COVID Human Genetic Effort hanno scoperto che più del 10% di questi pazienti avevano in circolo auto-anticorpi contro l’interferone I. Questi auto-anticorpi sono relativamente rari nella popolazione generale: su 1227 individui sani scelti casualmente solo 4 sono risultati positivi al test.

    Nella maggior parte dei pazienti la positività a questi auto-anticorpi è stata rilevata in campioni di sangue raccolti nei primi giorni dell’infezione, ma i ricercatori ipotizzano che gli anticorpi fossero già presenti prima del contagio e costituiscano, quindi, un fattore predisponente per le forme gravi. In alcuni casi è stata, infatti,  verificata  la presenza degli anticorpi anche in campioni di sangue antecedenti all’infezione.

    “Riteniamo che gli auto-anticorpi contro l’interferone possano spiegare una parte rilevante delle forme più aggressive di Covid-19 e del modo in cui queste forme si distribuiscono nella popolazione generale, ovvero colpendo maggiormente le persone di sesso maschile e di età avanzata” spiega Lorenzo Piemonti, direttore del Diabetes Research Institute dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e professore associato di Endocrinologia all’Università Vita- Salute San Raffaele, che ha contribuito all’analisi ed è tra gli autori della ricerca. “Non a caso, dei pazienti che presentavano gli auto-anticorpi, il 95% erano uomini e più del 50% aveva più di 65 anni di età, conclude.”

    “Il risultato ottenuto è in linea con quanto sapevamo”, dicono gli scienziati. “L’interferone è infatti uno degli strumenti fondamentali dell’immunità innata, quella parte della risposta immunitaria che entra in funzione per prima durante un’infezione e la tiene a bada nell’attesa che l’immunità adattativa costruisca una risposta più specifica; ci sono inoltre altri esempi di malattie infettive facilitate dalla presenza di auto-anticorpi che inibiscono l’azione del sistema immunitario”.

    “I due studi si rafforzano a vicenda e suggeriscono che intervenire per ristabilire le corrette quantità di interferone I nelle fasi iniziali dell’infezione potrebbe essere efficace contro le forme più severe di Covid-19, almeno in un gruppo selezionato di pazienti – afferma Fabio Ciceri –  vicedirettore scientifico dell’IRCCS Ospedale San Raffaele e professore ordinario di Ematologia all’Università Vita-Salute San Raffaele. “Ed è proprio in questa direzione che va uno studio clinico in partenza presso il nostro ospedale, che testerà conclude –  la somministrazione di interferone beta – un tipo di interferone I solitamente usato per la Sclerosi Multipla o forme croniche di epatite – nei pazienti covid-19 gravi.”

    Rita Lena

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