SERGIO LEONE, IL ROMANO CHE INSEGNÒ IL WESTERN AGLI AMERICANI

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    Sergio Leone

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    Il 30 aprile di venticinque anni fa, ci lasciava Sergio Leone. Fra i pochi registi italiani di assoluto prestigio internazionale, l’impronta personalissima del regista che trasformò Clint Eastwood in una star è rimasta impressa nella storia del cinema. Autore di capolavori come C’era una volta il West e C’era una volta in America, Leone nel dirigere dipingeva degli affreschi. In lui c’era sempre qualcosa di epico. Divenuto regista non per improvvisa folgorazione, Leone percorse l’intera trafila dell’apprendistato tecnico, facendosi le ossa prima come assistente di Carmine Garrone, Comencini, Aldo Fabrizi, Mario Soldati, e lavorando poi nei kolossal che Hollywood realizzava in Italia negli anni cinquanta. La lunga gavetta aveva maturato in Leone la convinzione che quella del regista doveva essere una professione eclettica. Per questo Leone non aveva esitato a sporcarsi le mani, debuttando nella regia con il Colosso di Rodi, un film appartenente al filone mitologico, ritenuto dalla maggioranza di allora una pratica di basso livello del cinema italiano, destinato a esigenza di puro consumo. Importante per lui era offrire sempre un prodotto dignitoso, tecnicamente impeccabile. Ogni suo film era una perfezione di scenografia assoluta. Figlio d’arte, il padre Vincenzo Leone era un attivissimo regista del cinema muto, Leone era anche un figlio di Roma. Nato in un appartamento di palazzo Lazzaroni nei pressi della fontana di Trevi, la cui acqua, come ricorda la famiglia, era utilizzata quotidianamente per i bisogni della tavola, la sua infanzia la trascorse in viale Glorioso a Trastevere, a poca distanza dalla Scalea del Tamburino che si divertiva a scendere a cavalcioni di una tavoletta di legno insieme alla sua piccola gang di amici. Mantenne sempre vivo il legame con la sua città lungo tutto il corso del suo cammino artistico fino a tenere a battesimo il debutto nel cinema di un giovane comico romano, Carlo Verdone, di cui produsse i primi due film Un sacco bello e Bianco rosso e verdone, forse perché scorgeva in lui quella romanità che vedeva sbiadire sempre più giorno dopo giorno. Il rapporto professionale, ma anche di stima e di amicizia tra i due, durò tredici anni, interrotto solo dalla morte del regista. E tra i tanti omaggi dedicati a Sergio Leone dopo la sua scomparsa, uno dei più toccanti è proprio quello che Carlo Verdone ha dedicato al suo mentore nel documentario prodotto da Sky, Verdone racconta Leone. Ricchissimo di aneddoti inediti che ne illustrano la sua figura artistica e umana.

    Racconta Verdone: “Leone è stato un maestro perché mi ha insegnato tante cose. E’ stato il mio primo produttore, il primo che ha creduto in me. Si comportò da vero produttore ma anche da padre, da padrino e, in qualche modo, anche da istitutore severo. Io credo che in Sergio Leone convivessero due anime, un’anima buona e un’anima cinica, tenerezza e durezza. Posso ricordare un episodio del Leone buono. La sera prima delle riprese di Un sacco bello, io ero molto nervoso. Mi rotolavo sul letto, non riuscivo a prendere sonno. A mezzanotte in punto squilla il citofono. Era Leone. Scendo e lui mi dice facciamoci due passi, perché la sera prima delle riprese, non si dorme mai. E in quel tragitto fu straordinario, indicava un ponte o una strada e per ogni luogo aveva una storia macabra e intrigante. Mi raccontava tutte vicende di una Roma misteriosa ed affascinante, e alla fine tutti quei racconti mi distraevano tantissimo. Poi alla fine quando tornammo a casa mi disse dormi qualche ora, domani mattina ti vengo a prendere e ti porto io sul set”.

    Tenerezza ma anche paterna severità. C’era quella scena in Un sacco bello della telefonata di Leo alla mamma che dovrebbe raggiungere al mare, ma Leo è solo in casa con Marisol, bellissima e affascinante ragazza spagnola conosciuta per caso in una deserta Roma d’agosto. Leo spera in un’avventura esotica con la ragazza, e trova il coraggio di comunicare a questa madre ingombrante la decisione di rimanere a Roma. La prima ribellione di questo candido, ingenuo personaggio con gli occhi rivolti eternamente al cielo. Una scena importante. Ricorda Verdone: “Sergio mi disse mi piacerebbe che la telefonata la facessi sudato, voglio vedere le vene che escono fuori, il sudore di uno che si incazza veramente con la madre, che trova il coraggio. Per cui tu adesso ti fai tre giri del palazzo, corri, torni, rifai le scale, io do il ciak e tu fai la telefonata. La voglio col fiatone, col sudore e con le vene che si vedono. Io gli dissi, guarda Sergio che oggi, era agosto a Roma, siamo vicini ai quaranta gradi, si muore. Per il sudore non possiamo fare qualcosa con il truccatore? e lui mi rispose guarda che stamo a fà il cinema, non il circo. Tre giri di palazzo. Fu irremovibile. Erano tutti pronti, aspettavano solo me per la scena, e allora uscii sulle scale e mi dissi vabbè, ma questo è matto! Tre giri con questo caldo, l’asfalto era bollente, l’aria torrida, e chi ci usciva fuori! Allora feci per un paio di minuti la rampa delle scale per farmi venire un po’ di fiatone, e rientrai. C’erano tutti che mi aspettavano e dissi sono pronto, Sergio. Lui mi guardò con un espressione strana in volto senza dire nulla, e diede il ciak. Presi il telefono e cominciai a recitare la mia battuta. Non feci in tempo a dire pronto che vidi la mano aperta, enorme, di Leone che entrava in campo. Mi diede un ceffone tremendo sul viso. Rimasi impietrito dalla sorpresa e dall’umiliazione, riuscii solo a dire perché?  Lui mi disse a stronzo, tu i giri di palazzo non l’hai fatti, me sò affacciato alla finestra e non t’ho visto passare. Ci fu un silenzio glaciale di tutta la troupe. Allora a quel punto con rabbia feci sti tre giri del palazzo e con la coda dell’occhio vedevo che lui veramente controllava che io li facessi davvero” continua Verdone, ridendo. “Alla fine rientrai, ero fradicio di sudore, paonazzo, con ancora il segno delle dita sulla guancia. Girammo e la scena venne realmente come lui voleva, e venne talmente bene che fu buona la prima. Questo era Sergio Leone”.

    Due grandi anime che convivevano in una sola, il padre severo e il bambino a cavalcioni di una tavoletta di legno. A chi gli chiedeva la ragione della sua passione per i film western così cercava di spiegare: “Il western è l’ingenuità del fanciullo. Riproposta in un adulto diventa infantilismo. Però non è detto che l’adulto non debba rimanere affascinato dall’ingenuità del fanciullo, e secondo me ha l’obbligo di riproporla questa ingenuità, naturalmente in maniera più adulta. E’ la realtà dell’ingenuità. E questa mi sembra la cosa più sacrosanta da difendere”. Questo era Sergio Leone, il romano che insegnò come si facevano i western agli americani.

     (Elena Martinelli)

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