Le mille solitudini di Roma
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Quando ho cambiato casa, ho cambiato anche l’orario nel quale prendo la metro la mattina per venire in ufficio.
Ho anticipato di circa mezz’ora, scoprendo che mezz’ora prima il mondo che si muove sui mezzi è completamente diverso. Mezz’ora dopo è già un fluire di impiegati, lavoratori pubblici, studenti nei periodi di lezione.
Mezz’ora prima sono soprattutto lavoratori domestici, operai, gente che deve partire in treno con trolley e valige.
Spesso sono visi assonnati che raccontano soprattutto di fatica, di spostamenti lunghi che questa strana città, tanto estesa e tanto arretrata in tema di mobilità, non aiuta e non vuole proprio aiutare.
E quando “sbarco” da Castro Pretorio quello che vedo, diversamente da qualche anno fa, sono i clochard avvolti nelle coperte che dormono sul retro dei palazzi, i resti di un povero pasto adagiati accanto al giaciglio improvvisato. Nell’assenza dei “normali” la marginalità si vede benissimo.
Termini, che dista pochi metri dal mio ufficio, è sia un luogo di transito che un luogo di grandi solitudini, come tutte le stazioni: sono posti nei quali chi sa dove deve andare passa, ma non si ferma o lo fa solo per aspettare la coincidenza di un treno.
Sono luoghi “impermanenti”.
Ma sono anche spazi di emarginazione nei quali si concentrano, spesso anche con problemi di sicurezza (che poi sono l’altra faccia della marginalità sociale quando viene respinta, ignorata, nascosta), vite “al minimo”, storie di isolamento, percorsi di affondamento e implosione.
C’è nel corpaccione di questa città un senso di cinica indifferenza che sta tracimando, un po’ come tutta la nostra sempre più disgregata società, in una forma di atomismo incattivito, in una pratica quotidiana dell’isolamento emotivo, del solipsismo da smartphone (vent’anni fa tutti leggevano il giornale, oggi tutti guardano uno schermo).
Lo smartphone è diventato una specie di antidoto ubiquitario a vite scomode: viene dato a tutti e tutti ne abusano, si insinua nel tempo, nei suoi frammenti, essendo per definizione istantaneo, agile e ineludibile con le sue notifiche e mille suoni che emette.
In fondo è un simbolo di disperazione esistenziale, un’ipostasi della speranza deceduta, una sorta di “messaggio in bottiglia” telematico: attendiamo, come tanti naufraghi su un’isola deserta, di udire la sirena di una nave di passaggio, giunta a salvarci e per la quale abbiamo predisposto un enorme falò della nostra vanità, fatto non di foglie secche e legni, ma di foto, filmati, frasi fatte copiate e ricopiate da altri.
Non avendo niente da dire, prendiamo in prestito parole altrui che non comprendiamo.
Non avendo niente da mostrare ci camuffiamo per sembrare altro da noi e finiamo per dimenticarci, se mai avessimo dedicato un po’ del nostro tempo a capirlo, chi siamo.
Speriamo in fondo che qualcuno ci noti, ci indichi, ci dica che siamo rilevanti, importanti, centrali.
E nel buttarci a capofitto in questa falsa via di salvezza – alla quale finiamo per sacrificare molto di più di quanto meriterebbe – ci dimentichiamo la più banale delle verità: essere irrilevanti per il mondo non solo non è una colpa, ma è lo stato naturale degli individui.
E’ da noi stessi che ci dovremmo salvare e dalla nostra indifferenza verniciata di smanie di attenzione per traumi irrisolti.
Alla fine, quando rientro la sera nel mio condominio, tutti gridano: i vicini da un lato, i vicini del piano di sopra, qualcuno in strada.
Ho anticipato di circa mezz’ora, scoprendo che mezz’ora prima il mondo che si muove sui mezzi è completamente diverso. Mezz’ora dopo è già un fluire di impiegati, lavoratori pubblici, studenti nei periodi di lezione.
Mezz’ora prima sono soprattutto lavoratori domestici, operai, gente che deve partire in treno con trolley e valige.
Spesso sono visi assonnati che raccontano soprattutto di fatica, di spostamenti lunghi che questa strana città, tanto estesa e tanto arretrata in tema di mobilità, non aiuta e non vuole proprio aiutare.
E quando “sbarco” da Castro Pretorio quello che vedo, diversamente da qualche anno fa, sono i clochard avvolti nelle coperte che dormono sul retro dei palazzi, i resti di un povero pasto adagiati accanto al giaciglio improvvisato. Nell’assenza dei “normali” la marginalità si vede benissimo.
Termini, che dista pochi metri dal mio ufficio, è sia un luogo di transito che un luogo di grandi solitudini, come tutte le stazioni: sono posti nei quali chi sa dove deve andare passa, ma non si ferma o lo fa solo per aspettare la coincidenza di un treno.
Sono luoghi “impermanenti”.
Ma sono anche spazi di emarginazione nei quali si concentrano, spesso anche con problemi di sicurezza (che poi sono l’altra faccia della marginalità sociale quando viene respinta, ignorata, nascosta), vite “al minimo”, storie di isolamento, percorsi di affondamento e implosione.
C’è nel corpaccione di questa città un senso di cinica indifferenza che sta tracimando, un po’ come tutta la nostra sempre più disgregata società, in una forma di atomismo incattivito, in una pratica quotidiana dell’isolamento emotivo, del solipsismo da smartphone (vent’anni fa tutti leggevano il giornale, oggi tutti guardano uno schermo).
Lo smartphone è diventato una specie di antidoto ubiquitario a vite scomode: viene dato a tutti e tutti ne abusano, si insinua nel tempo, nei suoi frammenti, essendo per definizione istantaneo, agile e ineludibile con le sue notifiche e mille suoni che emette.
In fondo è un simbolo di disperazione esistenziale, un’ipostasi della speranza deceduta, una sorta di “messaggio in bottiglia” telematico: attendiamo, come tanti naufraghi su un’isola deserta, di udire la sirena di una nave di passaggio, giunta a salvarci e per la quale abbiamo predisposto un enorme falò della nostra vanità, fatto non di foglie secche e legni, ma di foto, filmati, frasi fatte copiate e ricopiate da altri.
Non avendo niente da dire, prendiamo in prestito parole altrui che non comprendiamo.
Non avendo niente da mostrare ci camuffiamo per sembrare altro da noi e finiamo per dimenticarci, se mai avessimo dedicato un po’ del nostro tempo a capirlo, chi siamo.
Speriamo in fondo che qualcuno ci noti, ci indichi, ci dica che siamo rilevanti, importanti, centrali.
E nel buttarci a capofitto in questa falsa via di salvezza – alla quale finiamo per sacrificare molto di più di quanto meriterebbe – ci dimentichiamo la più banale delle verità: essere irrilevanti per il mondo non solo non è una colpa, ma è lo stato naturale degli individui.
E’ da noi stessi che ci dovremmo salvare e dalla nostra indifferenza verniciata di smanie di attenzione per traumi irrisolti.
Alla fine, quando rientro la sera nel mio condominio, tutti gridano: i vicini da un lato, i vicini del piano di sopra, qualcuno in strada.
Anche tutto questo gridare – in fondo una richiesta di essere ascoltati – ci dice che è la capacità di sentire gli altri una delle caratteristiche recessive di quest’epoca. Gridano, senza ascoltare e senza riuscire ad essere ascoltati, e poi tornano a guardare i loro piccoli schermi. Solo allora le voci tacciono e scende il silenzio della sera.