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Roma, distruggetela così, dice Vittorio Giacopini

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    Roma, distruggetela così, dice Vittorio Giacopini –

    Di Rome ce ne sono tante. C’è la Roma dei Romani, di Romolo e Remo, c’è la Roma dei papi, c’è quella di Porta Pia, quella di Nathan, quella di Rebecchini, quella di Virginia Raggi. Poi c’è la Roma di Vittorio Giacopini, ma bisognerebbe dire il Roma, perché è un romanzo (Il Saggiatore, 2017, pagine 414, € 21,00).

    Quella di Giacopini è una Roma raccontata per ciò che è oggi: una vecchia baldracca, che in gioventù era stata bellissima, forse la più bella città del mondo, diventata una Roma che “fa schifo” come dice un blog cliccatissimo sul web.

    La conoscete tutti, la conosciamo tutti. Le strade piene di buche, di cui è inutile fare la mappa, stanno dappertutto, si farebbe prima a segnalare i tratti indenni. I cassonetti stracolmi e puzzolenti, comodo riparo di chi non trova altro posto adatto a dare sfogo alle proprie necessità fisiologiche. Che volete, i bar alla sera chiudono alle 8 e i pochissimi  aperti hanno i servizi igienici inagibili (a meno che non ordiniate al bancone un caffè corretto o un cocktail specialità della casa).

    Roma come cesso a cielo aperto, strade sporche che aspettano per mesi o anni che l’Ama decida di inviare uno scopino a levare il grosso con una ramazza. E la chiama pulizia straordinaria, anche se quella ordinaria non esiste.

    Gente che invecchia mentre aspetta alla fermata che un autobus si decida a passare da quelle parti. Traffico impazzito, inquinamento, polveri sottili, strade allagate dopo qualche goccia di pioggia, vigili al caldo o al fresco dell’aria condizionata negli uffici. Che volete, fuori, in strada, è un lavoro usurante.

    Insomma, Roma fa schifo. E quale soluzione trova Giacopini per uscirne fuori? Scova – nel romanzo, è bene precisarlo a scanso di equivoci – scova tra i reduci dell’attivismo di sinistra l’uomo giusto, l’uomo adatto, l’uomo deciso a passare dalle idee ai fatti. È il Lunfardi, Lucio Lunfardi, ex giornalista deluso – quanti giornalisti, illusi di poter cambiare in meglio col loro mestiere il mondo! – autotrasformatosi in abominevole sobillatore.

    Il Lunfardi, che vive rintanato nello scantinato di una chiesa sconsacrata, non vuole dar fuoco alla città, a quello aveva provveduto Nerone senza riuscire nell’intento di farla scomparire dalla faccia della Terra. No, lui vuole allagarla, farla sommergere dalle acque del Tevere, trasformandola in una cloaca a cielo aperto, magari affogando tutti i burini, i buzzurri che l’hanno ridotta così com’è.

    Il Lunfardi, deluso da tutto e da tutti meno che dallo spirito anarchico che gli dà ancora la voglia di sopravvivere nell’inferno romano, unico sopravvissuto in una città morta, vuole riscattare decenni di vita da sconfitto, dando sfogo al rancore accumulato osservando le mille degenerazioni di una città che lo ha prima sedotto, poi disgustato ed escluso.

    Per colpire il bersaglio non c’è che un modo: far saltare i ponti e gli argini sul Tevere, le mura e gli acquedotti.

    Riuscirà nell’intento di scrivere la parola fine a una città in rovina? Beh, non chiedetelo a me. Compratevi il libro e scopritelo da voi. Scoprirete con una modica spesa, se già non lo conoscevate dai precedenti libri – L’arte dell’inganno (Fandango, 2011), Non ho bisogno di stare tranquillo (eléuthera, 2012), Nello specchio di Cagliostro (Il Saggiatore, 2013), La mappa (Il Saggiatore, 2015, finalista al premio Campiello) – uno scrittore atipico, capace di stupire con romanzi che evitano di narrare le vicende di lui che ama lei che ama un altro ma, con soluzioni letterarie paradossali, mettono davanti agli occhi dei lettori, anche di chi non li vuol vedere, gli incubi e i sogni del moderno abitante di questo pianeta.

    Arrigo d’Armiento

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