Carceri: per la Polizia penitenzia​ria il 2011 annus Horribilis​. Frongia (Lisiapp) un anno da dimenticar​e

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    Cosa accade nella mente di un agente di Polizia penitenziaria? Come reagisce la psiche umana al contatto quotidiano con emozioni perturbanti come la sofferenza, la rabbia, la disperazione? E chi aiuta questi ragazzi e ragazze ad affrontare un lavoro duro, sottopagato, che moltiplica i rischi di esaurimento e depressione? In un momento quanto mai critico per il sistema carceri italiani, alle prese con la piaga del sovraffollamento e spesso teatro di episodi di violenza,e aggressioni proprio ai danni degli agenti? Questa è l’altra faccia dei 207 istituti di pena attualmente attivi nel nostro Paese. Dall’altro lato delle sbarre. In Italia gli agenti di Polizia penitenziaria sono circa 38.000 effettive sul campo, di cui 3.500 donne. Di questi, meno della metà lavora all’interno di istituti penitenziari. Lo stipendio massimo di un agente è di circa 1.500 euro al mese, con 40 ore di straordinario a settimana che possono diventare anche 70. Il tutto a fronte di un lavoro estremamente faticoso sul piano emotivo, che costringe a ridefinire concetti come “relazione”, “umanità”, “regolamento”, “ruolo”. “Il risultato – spiega Simona Pasquali, psicologa esperta in formazione e gestione delle risorse umane – è un quadro professionale molto complesso”, in cui la figura del sorvegliante si sovrappone spesso a quella dello psicologo. Con risultati alterni, che possono portare ad un cortocircuito mentale noto come sindrome del burnout, vale a dire dell’operatore “bruciato”. “Vigilando redimere”. La missione dell’agente di polizia penitenziaria è sintetizzata nel motto del Corpo: “Vigilando redimere”. Due parole che, già nel loro accostamento, riflettono l’ambiguità del ruolo di chi è chiamato a mettere insieme due aspetti difficilmente conciliabili: repressione e riabilitazione. “E’ difficile integrare l’istanza punitiva con quella della rieducazione”, spiega Pasquali, che nel 2007 ha collaborato con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) per la produzione di Linee di intervento per il contrasto al disagio lavorativo. “Si tratta di istanze che guardano a versanti diversi dell’esperienza: da un lato – aggiunge – ci sono criteri formali di natura normativa, dall’altro c’è la sfera della soggettività”. L’incontro con i dolore e il “doppio legame”. Ciò che più mette alla prova gli agenti, però, è l’incontro con il dolore, con esperienze umane forti o borderline. “In carcere – sintetizza la psicologa – sei a contatto con la sofferenza, la disperazione, l’aggressività, la rabbia, con tutta una serie di emozioni perturbanti che rischiano di farti perdere la lucidità”. Ecco dunque che l’agente si sente confuso e spiazzato, sperimentando quella che gli psicologi chiamano una situazione di “doppio legame”. “La duplicità dell’agente – spiega ancora Pasquali – può consistere nel percepirsi al tempo stesso in una posizione di superiorità, datagli dal potere di soddisfare i bisogni fondamentali dei detenuti, e di impossibilità ad accogliere tutte le richieste”. Come reazione, in alcuni casi il secondino corre il rischio di diventare “insensibile” alle richieste dei carcerati, irrigidendosi dietro lo scudo del regolamento. Il senso di abbandono. Testimonianze di questo genere, in tutta la loro drammaticità, gettano luce su alcuni fenomeni riscontrati tra gli agenti: dall’elevatissimo numero di richieste di prepensionamento per sindrome ansioso-depressiva, ai molti casi di suicidio o di automutilazione, passando per gli episodi di violenza ai danni dei carcerati o di altri colleghi. Senza contare, poi, la sensazione di essere stati abbandonati dal proprio “datore di lavoro”, lo Stato, che fatica a fornire le strutture e gli strumenti adatti per un miglioramento effettivo della situazione delle carceri italiane. “L’agente di polizia penitenziaria – argomenta Giuseppe Mosconi, sociologo del diritto – è sottopagato, disconosciuto nei suoi sforzi, iper-responsabilizzato (se succede qualcosa è colpa sua), socialmente emarginato (spesso tace per vergogna del proprio lavoro), sradicato (il 90% è emigrato dal sud e non riesce a integrarsi), costretto aturni massacranti e a catene di comando che lo collocano sempre in uno stato subordinato”. Tra le mura del carcere, è solo insieme al detenuto. In dieci anni, sottolinea con forza Luca Frongia segretario generale del Lisiapp Libero Sindacato Appartenenti Polizia Penitenziaria, si sono tolti la vita una novantina di colleghi, un direttore di istituto, Armida Miserere, a Sulmona; e un dirigente regionale, Paolino Quattrone a Cosenza. Non è possibile collegare direttamente le volontà suicide a motivi di lavoro, ma non si può neppure escludere che l’ambito lavorativo, con il suo carico di disagio, sia estraneo a queste morti. Al pari dei detenuti, la comunità penitenziaria, di cui gli agenti di polizia sono parte integrante, vivono e patiscono infamanti condizioni di lavoro. “Chiediamo al neo Ministro Severino – afferma Frongia – di farsi carico in prima persona di questo importante problema. Lo abbiamo detto e lo ripetiamo: l’attivazione una volta per tutte di appositi centri specializzati di psicologi del lavoro che non rimanghino solo su carta ma che siano in grado di fornire un supporto agli operatori di polizia può essere un’occasione per aumentare l’autostima e la consapevolezza di possedere risorse e capacità spendibili in una professione davvero dura e difficile”. E sembra una richiesta ragionevole e di buon senso, un primo passo verso quell’obiettivo che appare ancora lontano. Nel frattempo abbiamo sfondato il muro dei 68mila detenuti ospitati nelle patrie galere, non è utopia a fronte di una capienza non più di 44mila. In questo giorno di fine anno ,conclude Frongia, un pensiero speciale và a tutti i nostri colleghi che in questi anni e in questo horribilis 2011 hanno scelto come unico gesto estremo, come grido di dolore quello del suicidio. Ciao ragazzi… riposate bene!

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