Fidel Castro, il rivoluzionario che si fece dittatore

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    TORONTO, ON: Fidel Castro. Photo taken by Boris Spremo/Toronto Star Feb. 1, 1976. (Boris Spremo/Toronto Star via Getty Images)

    Castro nel 1976

    La storia ha un sottile senso dell’ironia, a volte.

    Fidel Castro è morto vecchio, dopo decenni di tirannia e dopo aver ceduto progressivamente il potere al fratello Raul, come un qualunque caudillo centroamericano.

    La storia dell’America latina è piena di uomini forti, uomini della Provvidenza che iniziano le loro carriere di dittatori come libertadores, pieni, ricolmi di ideali altissimi di amore per l’umanità oppressa e per gli ultimi, a cominciare proprio dal tentativo più alto di realizzare un’America latina unita e federale, quello di Simon Bolivar.

    Sulla stessa linea  la rivoluzione messicana di Villa e Zapata che ha prodotto il “Partito rivoluzionario istituzionale” e poi, via via durante il novecento, tutte le varie dittature che hanno afflitto Brasile, Cile, Argentina, Paraguay, Repubblica Dominicana e, negli ultimi vent’anni, il Venezuela.

    Certo l’epopea del Granma e della Sierra Maestra è materia da poeti e biografi, ma senza figure carismatiche come Ernesto Guevara e Camilo Cienfuegos (e ben più sfolgoranti della propria, Castro sicuramente ne soffriva questa eccessiva luminosità) la rivoluzione dei barbudos non avrebbe avuto la proiezione universale che la storia, di fatto, le riconosce.

    Se si volesse provare ad esprimere il senso della vicenda rivoluzionaria cubana nella massima sintesi possibile si potrebbe dire che Castro ha fatto la rivoluzione ed è morto vecchio, Guevara ha incarnato la rivoluzione ed è morto martire.

    C’è una profonda differenza fra questi due percorsi: chi muore per i propri ideali, ascende al mito, alla dimensione eroica universale, mentre colui che invecchia, affogando quegli stessi ideali nella propria personale ed ostinata realpolitik, finisce per tradirli e diventare molto simile, in certi aspetti, all’antico tiranno che egli stesso contribuì ad abbattere.

    D’altra parte cosa si può dire del cattolico Fidel che iniziò il suo percorso formativo in una scuola gesuita per poi iscriversi al campo sovietico e scambiarsi grandi abbracci con Kruscev, se non che abbia esercitato ogni misura di cinismo politico possibile pur di mantenere in piedi un sistema di potere sempre più anacronistico?

    Certo Castro è stato Castro grazie alla pervicace ostinazione statunitense, totalmente insensata specie dopo il crollo del blocco sovietico: sarebbe stato facile smontare l’armamentario ideologico del periodo speciale, togliendo il “bloqueo”, data anche la capacità degli Stati Uniti di avere rapporti economici soprattutto con le dittature sanguinarie di tutto il mondo, specialmente quelle instaurate direttamente o indirettamente da loro. Quindi perché non tentare di avere un rapporto più sereno con Castro?

    Gli esuli cubani in America sono certamente una risposta alla domanda, ma non possono essere l’unica risposta, non dopo il 1989.

    Con la morte di Castro, comunque, si chiude ogni spazio per le ricostruzioni giornalistiche e occorre rimettersi al giudizio della storia. Un giudizio che pensiamo sarà duplice: uno per il rivoluzionario, l’altro per il dittatore. E, per quanto, un po’ romanticamente, ci piace ricordare soprattutto il rivoluzionario, non possiamo toglierci dagli occhi l’immagine plumbea dell’opprimente regime instaurato dal dittatore.

     

    Cosimo Benini

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