Lavoro agile per la PA, “cosa fatta capo ha”

La PA italiana è entrata, giocoforza, nel mondo del “lavoro agile”, ma si tratta di un cambiamento il cui saldo finale potrebbe essere negativo. Come tutti i “totem” del nuovo regime che si collocano nella narrazione rassicurante e paternalistica che questa classe dirigente ha fatto della crisi COVID e della conseguente crisi socioeconomica, anche il “lavoro agile” assume, di per sé, una connotazione positiva. Gli imperativi categorici del “mondo nuovo” sembrano gli slogan di qualche dazebao maoista: “meno traffico nelle grandi città!”, “più sicurezza sanitaria!”, “più flessibilità nella autogestione del tempo!”.

Dietro questi motti si cela invece una realtà molto variegata e piuttosto misconosciuta da chi invece dovrebbe saperne di più.

In effetti, il regime emergenziale ed il fatto che si siano sprecate fin troppe lodi ai travet da parte della Ministra Dadone dovrebbero far sospettare i più accorti che il “biscotto” contiene un ripieno sgradevole.

Inoltre, la PA nel suo complesso non ha ancora avviato alcuna riflessione sul significato e sulla strutturabilità nel nuovo contesto delle proprie funzioni.

E’ evidente che dietro gli slogan si nascondono tagli salariali feroci e neanche tanto occulti: i “livellati” infatti (così si chiamano in gergo coloro che appartengono alle aree professionali del personale non dirigente) hanno perso straordinari, indennità legate alla presenza e, in molti casi, i buoni pasto.

Dal punto di vista delle relazioni con la parte datoriale – a livello di singola amministrazione – il panorama è altrettanto frastagliato (alcuni datori si sono rivelati più attenti alle esigenze del personale, altri molto meno), ma è evidente che la trattativa sindacale a distanza è un qualcosa che rafforza la capacità del datore di rimandare e sottrarsi alle consuete (e molto farraginose) attività legate alla contrattazione integrativa di amministrazione dalla quale dipende in modo molto rilevante una quota del trattamento economico del personale.

I dirigenti, d’altra parte, non avendo una retribuzione collegata alla presenza non hanno di che lamentarsi: lavorano come prima, senza tagli (con l’eccezione dei famosi ticket).

E poi c’è l’aspetto lavorativo propriamente detto: siamo sicuri che avere un’amministrazione di centinaia o migliaia di atomi sparsi fra domicili urbani e rurali, riunioni a distanza e lavorazioni completamente dematerializzate sia sempre la risposta giusta al problema della produttività pubblica?

Per rispondere a questa domanda, bisognerebbe capire una questione fondamentale ossia cosa mai produca la PA in Italia.

I medici e i poliziotti non sono burocrati, ma non tutti i burocrati corrispondono a quella immagine lisa, ma immortale, dell’impiegato pigro e spocchioso che mette il timbro allo sportello.

Molte amministrazioni erogano denaro: previdenza, contributi a fondo perduto, aiuti comunitari e via discorrendo.

A fronte di queste erogazioni devono effettuare un’attività di istruttoria e di controllo che spesso richiede competenze tecniche. Queste funzioni, molto, troppo spesso, sono state “esternalizzate” a soggetti che appartengono al settore che io amo definire del “paraprivato”, perché composto prevalentemente da società in parte o totalmente private che operano esclusivamente o quasi per il cliente pubblico.

Di fatto quel personale è personale pubblico, ma è fuori dal perimetro del lavoro pubblico in senso giuridico normativo e, molto spesso, è quel personale che concretamente gestisce quei servizi di cui parlavo poc’anzi. Il personale di ruolo, invece, dequalificato e non formato, langue in un “parcheggio” di deprofessionalizzazione. Forse occorre invertire questo percorso, riprofessionalizzando chi c’è e vuole lavorare, facendolo bene.

E’ però certo che è mancata e manca questa generale riflessione su cosa faccia e chi faccia cosa nel mare magnum del lavoro pubblico ed annessi. Figuriamoci capire quali segmenti di attività possano essere “delocalizzati” a domicilio del lavoratore.

Manca inoltre una complessiva riflessione contrattuale a livello nazionale per i quattro comparti del lavoro pubblico che dovrà inevitabilmente regolare il “mondo nuovo” del lavoro agile: trattamento economico, diritto alla disconnessione, reperibilità, turnazione fisica in ufficio, connettività pubblica per il lavoro domestico ecc.

C’è tutto un lavoro da fare in questo ambito che richiederebbe tempi brevi ed invece sembra assai poco interessante sia per la parte politica (che vive di slogan e sondaggi) sia per la parte sindacale (che spera che “’a nuttata” passi e si torni in ufficio ossia all’ancien regime).

In mezzo ci sono i redditi di centinaia di migliaia di lavoratori pubblici che stanno pesantemente soffrendo, ci sono migliaia di lavoratori pubblici che non riescono o non possono lavorare da remoto (se ti devi dividere l’unico portatile con i figli che devono fare scuola online…) e ci sono moltissime attività – penso alle funzioni tecnico-ispettive ad esempio, che sono rimaste bloccate e, temo, lo rimarranno ancora a lungo con grave nocumento degli utenti che, senza quei controlli, non potranno veder soddisfatte le loro istanze.

In tutto ciò, ai grillini viene solo in mente di proporre emendamenti deliranti in stile sovietico con percentuali bulgare di lavoro agile “a permanenza”: 6 su 10 a casa “per sempre”. Ma cosa vuol dire? Che il sessanta per cento dei lavoratori sarà fisicamente confinato fuori dagli uffici fino alla pensione o che il 60% del tempo lavorativo verrà speso a domicilio ed il restante 40% in ufficio o altra diversa articolazione che qui sarebbe troppo lungo inserire? Non è dato sapere, ma quel che importa è lo slogan lanciato sui giornali, le norme, poi, qualcuno le scriverà.

Se vogliamo è un modo “smart” di dire “vedremo”, però sulla pelle del paese.

In questa estate da incubo tutto ciò passa inosservato col rischio di caricare altra polvere nel barilotto già ben pieno della crisi sociale del prossimo autunno che, certamente, metterà in ginocchio il paese ed alle strette la classe dirigente: ampi strati della società in smottamento verso la povertà, isolati anche fisicamente ed un’amministrazione bloccata e rinchiusa acriticamente in casa non sono certo un buon viatico per la ripresa, ma una potente spinta verso l’implosione della società.

CB