Perchè il discorso di Draghi a me non piace

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Il discorso di Draghi – osannato dai commentatori in maniera quasi bulgara e già strumentalizzato da varie parti politiche – non contiene nessuna particolare indicazione tecnica: è un insieme di affermazioni di carattere vagamente moralistico, ma non aggiunge nulla ai problemi che la crisi sanitaria ci ha posto di fronte.

Partiamo da un presupposto molto semplice: un sistema socioeconomico già alla corda di suo rischia seriamente di collassare quando viene investito da un evento imprevisto con conseguenze tanto perniciose come è il caso della pandemia in corso. Questa “solubilità” delle infrastrutture già obsolescenti alle intemperie “impreviste ed imprevedibili” è frutto di decenni di malagestione o non gestione, ma non è frutto del caso.

E’ in corso in Italia – limitiamo il discorso al nostro paese – un processo di decadenza e di disgregazione iniziato alla fine degli anni settanta: potete scegliere gli indicatori macroeconomici e di finanza pubblica che volete (come la serie storica del debito pubblico https://it.wikipedia.org/wiki/Dati_macroeconomici_italiani), ha poca importanza.

Quel che è – senza dubbio – è che l’Italia è un paese in cui gli squilibri di finanza pubblica e l’andamento dell’economia reale (frenato da criticità ataviche e di sistema ben note da decenni, se non dall’Unità d’Italia) segnano il passo. Una situazione che, negli ultimi vent’anni, ha trovato un pessimo compagno di viaggio in un processo di redistribuzione della ricchezza in un verso regressivo (e cioè pochi ricchissimi, classe media in affanno e aumento delle aree di povertà anche grave) che, nel complesso, determina la compresenza di una finanza pubblica “povera” con una capacità di spesa produttiva molto scarsa per quantità e qualità, irriformabile (essenzialmente per carenza di volontà politica)  e di una ricchezza privata quasi tutta concentrata nel “mattone” ossia immobilizzata.

Eppure la Costituzione parlava una lingua molto diversa: essa aveva trovato il baricentro dell’equilibrio fra Stato e Mercato nell’ordinamento sezionale del credito (legge bancaria del 1936) rivisto alla luce degli articoli 41, 45 e 47  – cioè del concetto di “economia sociale di mercato” (41), leva economica della cooperazione (45) ed esercizio della leva bancaria per gli investimenti nell’economia nazionale (47).

Draghi, invece, è l’esponente di un sistema bancario transnazionale – l’Eurosistema (termine tecnico, si badi) – che sta ancora tentando faticosamente di rialzarsi dalla crisi finanziaria del 2007-2009, iniziata con le obbligazioni “cubed” (cartolarizzazioni massive di terzo livello di crediti “non performing” basati sul debito privato immobiliare americano e sulla speculazione sui prezzi delle case) e finita con la sfiducia degli investitori istituzionali nei confronti di quei paesi, come l’Italia, con un debito pubblico elevato in parte speso per proteggere il sistema bancario.

Il denaro facile della BCE – politica di Draghi per tenere a bada i rendimenti del debito pubblico o meglio moderare la dinamica dei loro differenziali, continuata, obbligatoriamente, da Christine Lagarde che ne ha preso il posto in BCE – non è diverso da quel sistema di sussidi (sempre a debito) che egli critica come “debito cattivo” che opprimerà i giovani ai quali noi, oggi, dovremmo offrire un futuro.

Il problema di fondo tuttavia, debito o non debito, è quello di una economia reale che non produce aumenti di PIL significativi da decenni: è sugli ostacoli a questo processo che si dovrebbe concentrare l’attenzione di tutti, Draghi compreso.

E veniamo ai soliti atavici problemi: criminalità organizzata, economia illegale o paralegale, lavoro nero, evasione contributiva e fiscale a fronte di un sistema fiscale complicato e punitivo, sfiducia cronica dei cittadini in uno  Stato che non fa niente per migliorare la sua immagine, una pubblica amministrazione  che andrebbe profondamente riformata ab imis (cioè nel modello organizzativo, il modello per ministeri non funziona più, è ottocentesco), una seria politica delle infrastrutture, una seria politica di gestione del territorio, una semplificazione dei livelli di governo.

Di questi problemi Draghi non ha parlato, perché sono problemi da far tremare i polsi: un conto è consentire al sistema bancario di comprare in massa il debito dello Stato, altro conto è riformare lo Stato e con esso il paese, tutto senza una classe dirigente degna di questo nome.

In una logica deprimente, buona parte della politica vorrebbe Draghi come medaglia benedetta da appuntarsi sul petto (salvo poi liquidarlo appena divenisse scomodo): un re travicello di nobile lignaggio per dirsi, allo specchio, quanto siamo bravi. Ma nessuno ha voglia di cambiare le cose.

Draghi – che suppongo essere persona sufficiente avveduta – questo lo dovrebbe saper bene, tenendosi alla larga da certi inviti pelosi: si troverebbe sul ponte di comando di una nave con un timone finto che non controlla niente, con un equipaggio riottoso e incline all’ammutinamento e dei passeggeri ben abituati al pasto gratis che cantano “fin che la barca va…” tutti in coro.

CB

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