Conte e i suoi ministri, chiusi in villa, ballano sul ponte del Titanic

“Progettiamo il rilancio” – vista la conferenza stampa a tre con Conte al centro – sembra uno slogan un po’ vuoto. I contenuti sono quelli che sono, ma basti dire che tutti i verbi nelle dichiarazioni espresse dal Governo sono coniugati al futuro. Come è ormai chiaro se e nel modo in cui verrà varato il “recovery fund” ci vorranno mesi e poi anni per spenderlo in un quadro ancora incerto di condizionalità finanziarie (per la parte in prestito) e di policies per la parte della condizionalità non finanziaria.

Sembra quindi poco giustificabile tanto ottimismo, anche a fronte delle difficoltà che nei prossimi mesi, ma specialmente in autunno, la politica dovrà gestire: come finanziare la prosecuzione della cassa integrazione (con i numeri che ci saranno)? Si potrà continuare a vietare per legge di licenziare? Quante imprese chiuderanno o non riapriranno? Come “normalizzare” il sistema sanitario, stravolto dall’impatto del covid per tutti i malati di altre patologie? Come sostenere la domanda interna? Come fare in modo che i processi di spesa pubblica siano rapidi ed efficaci?

E’ un elenco molto parziale di tematiche e ciascuna presenta molte criticità storiche, alcune tutte italiane, che la crisi sanitaria ha solo evidenziato.

E’ necessario ripensare ruolo e rapporto fra livelli di governo: l’Italia ha un sistema delle autonomie parcellizzato, complicato e complicante ed iper politicizzato anche per la asimmetria fra i sistemi elettorali nazionali e locali: un Presidente di Giunta o un Sindaco sono forti di un consenso personale, un deputato o un senatore no. Nei partiti questo conta e rende la politica nazionale – quella che si fa in Parlamento – schiacciata fra i leaderismi di partito e le satrapie locali. Il paese è ingovernabile così.

C’è bisogno di investimenti pubblici infrastrutturali e, in alcuni casi, questi investimenti dovrebbero essere finalizzati a miglioramenti e manutenzioni di reti esistenti (rete idrica, rete autostradale, rete ferroviaria), in altri alla sostituzione di opere deteriorate, in altri ancora alla adozione di tecnologie più moderne che consentano risparmi di costi incluso quello energetico.

C’è bisogno di una complessiva riforma fiscale che semplifichi gli oneri per il contribuente e di una altrettanto significativa riforma dei servizi pubblici al cittadino, in senso esteso cioè da intendersi come quelli che vanno dalla prestazione sociale o previdenziale (e relativa burocrazia) alla erogazione dei servizi di trasporto locale. Serve quindi una riflessione seria sul ruolo dei Comuni e, ad esempio per Roma, una riforma dei compiti e delle risorse dei municipi.

Io sono convinto che il modello organizzativo della PA centrale vada riformato radicalmente. Ne ho scritto tante volte: il modello per Ministeri è superato e le strutture di servizio (Agenzie ed Enti) vanno accorpate ed organizzate per aree omogenee, lasciando ai Ministeri un compito di “amministrazione di regolazione” e non di amministrazione “di servizio”. Serve insomma una partizione netta e una riduzione del numero dei centri decisionali e di spesa: non è un problema di esuberi perché la PA centrale si sta semplicemente dissolvendo per i pensionamenti e tempo cinque/dieci anni il problema sarà non avere più dipendenti, non mandare a casa quelli in esubero (oltre ad averli anziani, deprofessionalizzati e demotivati).

E’ utile introdurre la figura del quadro intermedio? E’ una riflessione al tavolo della riforma dell’ordinamento professionale pubblico, ma se si vogliono quadri utili a mandare avanti il lavoro occorre dar loro potere, responsabilità e ovviamente anche una retribuzione adeguata, evitando il rischio delle promozioni sul campo, ma formando e selezionando le risorse adatte.

Tutto questo non si realizza in tre mesi, ma in dieci anni.

Difficile pensare che la politica italiana possa offrire un orizzonte di tematiche e progettualità condivise unanimemente fra le avverse parti politiche con una tale portata cronologica.

In autunno con i fallimenti di molte imprese, la disoccupazione aumenterà a cifra doppia mensilmente, ci sarà un aumento delle sofferenze bancarie e una forte contrazione della domanda interna e tornerà il conflitto sociale, ma in un paese in cui i sindacati non sono più in grado di incanalarlo e governarlo in quanto strutture ormai sclerotizzate e poco rappresentative se non di frange “tutelate” della popolazione (pensionati e dipendenti con contratti “tradizionali”).

L’ordine pubblico sarà a rischio e ci sarà terreno fertile per spontaneismi di protesta e persino violenti: nei momenti di confusione c’è sempre qualcuno pronto ad appiccare incendi nel tentativo di trovarsi un posto al sole. A gente così non importano i costi della distruzione o dell’indebolimento dell’assetto sociale e politico in essere, ovviamente.

Di fronte a un quadro del genere il siparietto di Conte e Gualtieri di ieri non lascia ben sperare l’osservatore attento.