La vera storia di Apelle, figlio illegittimo di Apollo

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    APOLLODi chiacchiere sulla vicenda se ne sentono tante, ma la verità sono in pochi a conoscerla e ancora meno disposti a divulgarla. Dunque, vediamo un po’ chi era questo Apelle, di cui tutti parlano senza sapere quel che dicono.

    Apelle, questa la rivelazione inattesa, era uno dei tanti figli illegittimi di Apollo, considerato dai Greci e dai Romani il dio, oggi si direbbe il ministro, dell’arte, della musica, della profezia, con l’aggiunta di diverse altre deleghe, probabilmente rifiutate da colleghi meno accaparratori e meno disposti a compiere diligentemente il loro dovere. Dicevano: Voja de lavorà cascheme addosso… ma non cascava mai.

    Bene, abbiamo accertato che Apelle era figlio, pur illegittimo, di Apollo. Ma chi era la madre? E qui, un’altra rivelazione: era un’etèra (ho messo l’accento su suggerimento di Aldo Gabrielli), cioè una cortigiana, una prostituta d’alto bordo, si direbbe oggi, una super-squillo, mica una di quelle di Tor di Quinto.

    Quando il bambino nacque, lei volle chiamarlo Apelle, in modo da portare, con un nome assonante, Apollo davanti alle sue responsabilità e ottenere un congruo assegno di mantenimento. Apelle crebbe con la nutrice, che qui chiameremo Carolina, nome falso perché la donna non voleva essere nominata per non avere guai dal dio fedifrago, notoriamente vendicativo. Con dèi e ministri, non si sa mai, meglio essere prudenti e non infastidirli.

    Ma Apelle era sempre triste, gli altri bambini non volevano giocare con lui perché non lo vedevano mai accompagnato dal padre. Lo canzonavano, lo sfottevano, gliene dicevano di cotte e di crude, gli tiravano addosso i sassi, che lui fortunatamente era prontissimo a schivare.

    Stanco della situazione, deciso a trovare una soluzione che gli consentisse di essere accettato dagli altri bambini, di poter giocare con loro, studiò a fondo il problema e finalmente gridò: Eureka! Con l’aiuto del suo acume, delle sue celluline grigie e del suo acutissimo senso dell’osservazione, aveva scoperto una legge fisica che qualche migliaio d’anni dopo fece la fortuna di Archimede: un corpo immerso in un liquido riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del liquido spostato. E inventò la palla, la cosa più adatta a rimanere a galla.

    Già, ma a quei tempi le palle non le vendevano i grandi magazzini, i negozi di articoli sportivi e neanche Groupon. Insomma, una volta inventata l’idea della palla, per realizzarla c’era un solo modo: costruirsela da sé. Ed ecco la seconda eccezionale invenzione di Apelle: non avendo a disposizione né gomma né plastica, lui pensò alla pelle di pollo. Sì, perché, secondo la sua osservazione, la pelle di pollo era la più adatta a essere riempita di stracci (la carta non era stata ancora inventata e lui andava di fretta e era inutile sperare di poterla riempire soltanto di aria, dalle cuciture sarebbe uscita sgonfiandosi) per essere poi cucita accuratamente per diventare una palla. Magari non perfettamente tonda, ma insomma una palla, adatta a essere presa a calci o a essere gettata da una parte all’altra di una rete in mezzo a un campetto di periferia.

    La notizia dell’invenzione della palla circolò rapidamente in tutta la penisola greca. Corsero ad ammirarla non solo i pesci, che furono i primi a salire a galla per vedere la palla di pelle di pollo fatta da Apelle figlio d’Apollo, ma tutta la popolazione, con in prima fila i bambini che fecero a gara per essere ammessi alla presenza dello straordinario inventore il quale, bontà sua, ne scelse una ventina per poter giocare finalmente una partita di pallone, provvedendo anche a inventare le regole, tuttora valide nei campi di calcio di tutto il mondo.

    Questa è la vera storia, ricostruita su fonti che per discrezione e per la legge sulla privacy (pronuncia: privasi, non praivasi come dicono quei burini degli americani) non possiamo rivelare, di Apelle, figlio illegittimo di Apollo, che dimostra in modo esemplare come anche i figli di etèra possono dare un notevole contributo al progresso civile di tutti i popoli.

    Arrigo d’Armiento

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