Lo sciopero del pubblico impiego del 9 dicembre solleva polemiche

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Si assiste in questi giorni ad una discussione tanto lunare quanto stantia: il 9 dicembre i pubblici scioperano per tutta una serie di motivazioni (contratto scaduto, sicurezza sul lavoro, l’enorme numero di precari che si vorrebbero riassorbire nel lavoro stabile – essendo stati già sindacalizzati -, il tema delle “assunzioni”).
La scelta è, ovviamente, poco opportuna e rischia di fallire: è difficile che coloro che operano da casa senza straordinario ed altre indennità, di norma legate alla presenza ed all’orario, abbiano voglia di prendersi una decurtazione di stipendio per sciopero che arriverà a gennaio o a febbraio, quando gli stipendi sono già ridotti per effetto dei conguagli fiscali a debito sull’IRPEF dell’anno precedente.
Il fatto poi che le OOSS confederali calino dall’alto uno sciopero senza sentire la base – antica costumanza – ha reso negli anni queste proteste più formali che sostanziali: l’impatto poi è variegato in base al servizio prestato, alla condizione economica di ciascuno ed all’età.
E’ improbabile pensare che un personale, penso ad esempio alle funzioni centrali (Ministeri, Agenzie Fiscali ed Enti Pubblici), anziano con ampie fasce che hanno effettuato tutta la “carriera” possibile e attendono solo di andare in pensione, aderisca in massa ad un sciopero che, di fatto, sarebbe virtuale come il servizio prestato in questi mesi.
Non c’è modo, infatti, di sapere se e come le amministrazioni “da casa” abbiano continuato ad offrire i loro servizi al pubblico, né, aspetto sovente dimenticato, tutte le amministrazioni erogano servizi direttamente al pubblico. Molte hanno clienti istituzionali, molte svolgono funzioni di regolazione, mentre sono soprattutto i comuni e gli enti di previdenza ad essere al centro della “percezione” dei cittadini in quanto destinatari di servizi.
Questo passaggio non brillante dei confederali rischia di seppellire sotto il solito cumulo di chiacchiere all’italiana e relativi luoghi comuni (statale raccomandato, concorso “finto”, posto non meritato, incompetenza di default, non lavoro o lavoro improduttivo, stipendio “rubato” ecc. ecc.) il vero spostamento di prospettiva che la pandemia ha imposto anche al lavoro pubblico e sul quale è utile svolgere qualche riflessione.
La prima, da un punto di vista datoriale, è la necessità di interrogarsi in modo molto onesto sulla struttura della PA italiana: se il modello per ministeri delle funzioni centrali abbia ancora senso, se l’INPS abbia delle criticità forti da affrontare (erogazioni lente, controlli “formali”, controlli sostanziali al minimo vedi percettori indebiti del RdC), se la sanità pubblica debba essere ancora regionale (e che senso abbiano delle Regioni il cui bilancio è composto all’80% da spesa sanitaria), quanto pesa nei costi intermedi del bilancio dello stadio (che sono svariate decine di miliardi) l’appaltificio a favore di una congerie di soggetti misti, privati o paraprivati che vendono allo Stato servizi a costi fuori mercato (si pensi che il ribasso medio delle basi di gara per i servizi di consulenza e supporto alle PA supera il 40%).
E’ evidente tuttavia che l’organizzazione di base non funziona e non riesce ad erogare servizi in modo efficace.
La seconda, da un punto di vista sindacale, è realizzare la strutturalità del lavoro agile ed operare fattivamente per un CCNL del lavoratore “smartato” (per usare l’orrendo neologismo della Dadone), prendendo atto che il paradigma novecentesco dell’orario e del cartellino per quanto non ancora morto, ha subito un colpo decisivo dagli eventi di questo 2020 e che non si potrà più tornare ad un riallineamento delle truppe sindacali negli uffici.
In altre parole, il sindacalismo teme il lavoro agile consolidato perché “da remoto” è molto più difficile effettuare quell’attività di proselitismo, clientelismo e pressioni sui vertici amministrativi che chiunque abbia fatto quel mestiere conosce assai bene (dal calendarietto agenda a inizio anno, alla “vendita” di servizi di patronato ed assistenza fiscale, alla bussata alla porta del direttore per risolvere problemini di vario cabotaggio ecc.). Forse per questo non si pone al tavolo il problema di superare, almeno in parte, il moloch dell’orario (realtà acquisita per i Dirigenti da decenni, motivo per il quale i “capi” chiamano a qualsiasi ora del giorno e della notte o nel weekend dato che loro sono abituati a lavorare così ovviamente per ben altra retribuzione).
D’altra parte il lavoratore pubblico “smartato” rischia di restare confinato per anni nel limbo di una minor tutela: laddove il sistema novecentesco degli orari e del badge, nella sua rigidità, offre alcune difese passive al lavoratore, in cambio di remunerazione (se si trattiene), il collega “smartato” (assumiamo uno statale che lavori, ma va detto che chi è improduttivo in ufficio, resta improduttivo anche a casa) non ha più quelle rigidità difensive (esco magari alle 18, ma poi spengo il cellulare e non l’email dell’ufficio sul pc di casa quindi “stacco”) del collega in presenza ed è, di fatto, “always on”.
Chi scrive lo può testimoniare: non si contano le “call” fatte ad orari improbabili (dopo cena, di domenica ecc.), ma, in assenza del vincolo fondamentale del contratto di lavoro (io vengo in ufficio per un orario retribuito, anche straordinario, ma quando esco torno un “civile”), la distinzione – anche fisica – fra “il luogo di lavoro” ed il “luogo privato del domicilio” si sfuma e si perde in una melassa devastante.
Fra le altre bizzarrie dell’ennesima emergenza cronica all’italiana, terra di Commissari Straordinari che durano lo spazio di un mattino, anche il fatto che nessuno si chieda: ma perché il mio telefono personale è diventato il telefono dell’ufficio e il mio pc personale deve essere usato come pc dell’ufficio e io devo farvi transitare sopra dati sensibili e di interesse pubblico?
Ecco perché lo sciopero del 9 dicembre ha poco senso, al di là del “momento poco opportuno”: si tratta del solito tormentone già visto mille volte e che, stavolta, rischia di avere un tasso di adesione assai basso (ma vedremo i dati proclamati dalle parti in causa) se non altro perché le palanche, anche per “i privilegiati statali che rubano i soldi dello stipendio, stando a casa senza far nulla (che pacchia!)”, sono molte meno dello scorso anno (niente accessorio, niente straordinari ossia, a seconda dei comparti, dal 20 al 35% in meno di retribuzione effettiva) e anche quei cinquanta euro del giorno di sciopero (in media) sono “meglio in tasca a me, che a voi”.
CB

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