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Favola della domenica – La porta magica

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    C’erano una volta due amici, Irene e Franco, che abitavano in campagna.

    Durante una gita nel bosco scoprirono, tra due alberi, una porta dimensionale. Quando si immersero in quel fascio luminoso, vissero avventure in mondi e tempi remoti.

    La prima volta si trovarono nel 1250. Franco era il ragazzo di bottega di un fabbro e Irene la fantesca di una famiglia benestante. Erano poveri e sempre affamati.

    Quando s’incontravano per caso in paese, si scambiavano frasi sottovoce per non incorrere nell’ira dei loro datori di lavoro.

    Un giorno Franco, transitando per la piazza del mercato, tentò di rubare una ciriola di pane per placare la fame. Irene lo vide da lontano e lo avvertì che i gendarmi l’avevano scoperto: “Corri, corri, non farti prendere!”

    Franco non se lo fece ripetere due volte ma ormai era troppo tardi. Un gendarme stava per afferrarlo: “Ti prendo, manigoldo!” Irene, correndo in suo aiuto, fece lo sgambetto al soldato gridando: “Lascialo stare!”

    L’uomo cadde a terra: “Ah, furfanti, aspettate che vi acchiappi…!”

    I due ragazzini riuscirono a fuggire e si nascosero nel bosco. Molti soldati furono mandati alla loro ricerca, ma inutilmente. Per giorni vagarono nella macchia cibandosi di radici e di bacche e, per paura di essere imprigionati, non fecero mai più ritorno a casa.

    Quando tornarono indietro dal Medio Evo attraverso la porta invisibile tra gli alberi, Irene domandò a Franco: “Che cosa hai imparato da questo episodio?”

    “Ho imparato che è meglio non rubare, anche se si muore di fame”.

    “Hai ragione. Se pensi che non abbiamo più potuto vedere le nostre famiglie…”

    “Ma tu cedi che si trattasse proprio di noi?…”

    Successivamente, i due ragazzini riattraversarono la porta dimensionale vivendo un’ulteriore storia fantastica.

    Si trovarono nell’anno 1800. Erano amici e vivevano negli agi, rampolli viziati, capricciosi e arroganti di due famiglie agiate. Si chiamavano Enzo e Camillo.

    Una domenica mattina si stavano avviando in carrozza verso la chiesa in compagnia dei genitori di Camillo, quando un ragazzino malconcio attraversò di corsa la strada: “Attento!” gridò il cocchiere. Con sua grande costernazione, non riuscì a frenare i cavalli e lo investì.

    Gli adulti scesero dal mezzo cercando di dare un aiuto, ma i due ragazzini rimasero al loro posto dicendo: “Non è che un mendicante, povero e sfortunato”.

    “E’ inutile aiutarlo. Lasciatelo al suo destino”.

    Gli adulti li rimproverarono ma i due amici rimasero indifferenti.

    Tempo dopo, le due famiglie caddero in disgrazia. Al governo del paese era subentrata una fazione contraria al loro credo.

    In breve tempo, i ragazzi si ritrovarono poveri e disprezzati, costretti poco dopo ad andare in esilio in un paese straniero.

    “Non è giusto” si lamentava Enzo “eravamo ricchi e rispettati e ora siamo costretti a fuggire come pericolosi criminali”.

    “Ti ricordi il ragazzino investito dalla nostra carrozza anni fa?” chiese Camillo.

    “Sì, e allora?”

    “Non l’abbiamo aiutato. Chissà che anche lui non avesse subito la nostra stessa sorte, dalla ricchezza alla povertà”.

    “Come potevamo saperlo?”

    Per tutta la vita Enzo e Camillo rimpiansero il passato e denigrarono il loro destino. Scontenti e arrabbiati, finirono per frequentare osterie e bettole, incapaci di accettare con serenità la nuova vita.

    Il viaggio nel tempo ebbe termine. Franco e Irene tornarono nel ventunesimo secolo.

    “Che cosa tremenda” disse Irene. “Credi che si trattasse proprio di noi?”

    “Chi può dirlo?”

    “Che cosa ne pensi?”

    “Penso che si dovrebbe sempre provare pietà e compassione verso chi è più debole e sfortunato”.

    “Eh già, altrimenti si è costretti a vivere la loro stessa vita”.

    Colpiti dalle avventure vissute, i due ragazzini evitarono di recarsi nel bosco. Un giorno in cui avevano deciso di fare un terzo viaggio nel tempo, trovarono i due alberi abbattuti.

    “Accipicchia, che sfortuna!” esclamò Irene.

    “Forse è meglio così” disse Franco. “Sembravano così reali le storie che abbiamo sperimentato, che sono contento di non provarne ancora”.

    “Forse hai ragione…Anche se da quelle avventure abbiamo imparato molte cose”.

    “Probabilmente ci saranno utili per la nostra vita futura”.

    “Lo penso anch’io, e chissà che qualche buon amico invisibile non ci abbia portato a vivere questi episodi proprio perché imparassimo a comportarci bene”.

    “Potrebbe essere. Io credo nello spirito che protegge ciascuno di noi e, in questo caso, gli sono infinitamente grato”.

    “Anche io”.

    Maria Rosaria Fortini

     

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