Addio a Marchionne ed al suo pragmatismo

Marchionne un grande italiano? Un grande manager, questo sì, ma un manager che ha scelto la via dell’internazionalizzazione e reciso le radici italiane della manifattura automobilistica. Ha provato, tardivamente e solo con Alfa Romeo a ripristinare un minimo di “italianità”. E’ l’idea appena abbozzata del “polo del lusso” legata al concetto di rapporto positivo fra prodotto ad alto margine, quindi prodotto di lusso, ed elevata professionalità (e costo del lavoro) delle risorse umane, ma ha cancellato Lancia e ridotto Fiat alla Panda ed alla famiglia 500. Il resto è la tipo fabbricata in Turchia alla Tofas.

Marchionne è stato senza dubbio soprattutto un uomo del capitale. Questo va dato per scontato: il suo compito è sempre consistito nel remunerare il capitale investito dagli azionisti. Non è stato certo un “amico del popolo”, ma non ci si aspettano certe qualità da chi è chiamato a risanare un’azienda e a trasformarla in un soggetto capace di reggere la competizione globale in un settore severo come l’automotive.

Sulle auto “di massa” i margini sono risicatissimi, i costi di produzione elevati, la standardizzazione dei componenti (vedi pianale MQB di VAG) una necessità. Lo stesso concetto di mobilità individuale è in piena evoluzione e l’auto, come l’abbiamo conosciuta nel ‘900, potrebbe essere destinata a cambiamenti radicali. Chi ha perso il lavoro è vittima delle scelte degli investitori: cattive scelte quando hanno consentito ad una fabbrica di diventare un elemento di perdita e cattive scelte quando hanno mal gestito le crisi industriali. Da questo punto di vista Marchionne, nel complesso, non ha fatto malaccio: ha ristrutturato con l’idea di non lasciare, ha rimodernato stabilimenti obsoleti, ha rimesso al centro il prodotto (quando gli Agnelli volevano disinvestire) ed ha recuperato risorse per investire e fare ricerca. Su questo percorso ha lasciato, ovviamente, fabbriche chiuse in Italia (ma ha anche salvato stabilimenti in Italia – vedi Pomigliano e Gruglisasco – o aperto fabbriche vecchie e nuove altrove).

Ha reso la Fiat una parte di una multinazionale. La Fiat come l’abbiamo conosciuta non esiste più. Se una critica si può fare a Marchionne è quella di aver deitalianizzato il “gruppone”, dando una spinta al declino industriale del Paese, questo si. Per gli americani è un eroe, lì ha sviluppato un rapporto diverso con l’UAW ed ha trasformato Dodge e Jeep in due macchine da soldi, ha anche tentato con minor fortuna di vendere la 500 agli americani con risultati altalenanti, ma va detto che erano decenni che il marchio Fiat non vendeva negli States dove era in uso il nomignolo Fix It Again Tony (riparala ancora Tonino).

In tempi recenti si era aperto all’elettrico – che aveva sempre snobbato – perché aveva capito dove stava girando il vento, abilissimo a schivare lo scandalo diesel e ad abbandonare l’idea dei propulsori a gasolio come “spina dorsale” delle vendite europee.

Marchionne, soprattutto, è stato persona di grandissima pragmaticità e concretezza, una qualità che manca alla nostra classe dirigente sempre intenta a far proclami ed a parlarsi addosso, laddove il manager abruzzese parlava con i fatti ed i cambiamenti concreti.

 

CB